I lemming sono quei piccoli roditori che si buttano in mare dalle scogliere della Norvegia quando le risorse alimentari sono insufficienti. Una convinzione falsa, come etologi e naturalisti ci insegnano, ma che consente di dare un po’ di colore ad una preoccupazione vera: ci stiamo dirigendo anche noi italiani verso il precipizio di una grave crisi politico-economica con la stessa incoscienza di una massa di lemming? Una via d’uscita diversa da un suicidio collettivo forse ci sarebbe – un “vero” governo di unità nazionale – ma i capi che guidano le diverse schiere di lemming (fuor di metafora, i diversi partiti) non sembrano volerla seguire: perché? E’ questo il problema cui vorrei dedicare una riflessione tramite il piccolo “esperimento mentale” che sviluppo nella seconda parte di quest’articolo. Sono consapevole – e ne tratto più sotto – che per ora mancano le condizioni per trasformare l’esperimento mentale in un esperimento vero, in una proposta realistica per l’immediato futuro. E allora? Allora l’articolo è inconcludente: descrive una via d’uscita dalla crisi che a mio parere sarebbe idonea a invertire la fase di declino in cui il paese si è avviato da più di vent’anni, ma che sicuramente non verrà percorsa in un futuro prevedibile. Nel descriverla, però, spero di dare un’immagine della crisi politico-economica in cui ci troviamo più completa e drammatica di quelle che ci offrono gran parte delle analisi correnti: il declino è destinato a durare sinché non si sarà formata una classe dirigente, e soprattutto una classe politica, all’altezza delle sfide che il nostro paese deve affrontare.


Cominciamo da dove bisogna cominciare, dai rischi sanitari: com’è possibile affrontarli salvaguardando insieme una ripresa dell’attività economica che eviti conseguenza disastrose per il nostro paese? I rischi sanitari meritano però un discorso a parte perché riguardano dilemmi cognitivi ed etici altrettanto difficili di quelli che un medico affronta nel decidere a chi destinare risorse salvavita in condizioni di scarsità. Questa volta è la politica a decidere, coadiuvata dalle migliori competenze conoscitive di cui può disporre. La decisione è difficile perché, sia sul lato della previsione sanitaria, sia su quello delle previsioni economico-sociali, le valutazioni dei migliori esperti di singoli settori non saranno mai in grado di presentare al politico alternative nette e sicure. Per intenderci, alternative del tipo: un mese in più di blocco dell’attività economica salverebbe X vite ma ridurrebbe la capacità produttiva del paese dello Y per cento, con conseguenze in termini di disoccupazione, di distruzione di capitale fisico e umano, di insostenibilità finanziaria, di conflitti sociali e politici molto gravi ma quantificabili con sufficiente sicurezza. Se anche lo fossero resterebbe però il dilemma, perché il calcolo delle vite salvate se si ritarda l’apertura sarebbe probabilmente più affidabile di quello riguardante previsioni di natura economico-sociale, che necessariamente si estendono ad un orizzonte temporale più lungo e incerto. Insomma, più morti subito al fine di evitare in futuro una situazione molto grave, e forse anche un maggior numero di vittime e di sofferenze… ma ne siamo proprio sicuri? Sono stati elaborati modelli, compiuti studi e ricerche, interpellati esperti per assistere i politici a prendere decisioni, ma nessuno di questi pur indispensabili supporti tecnici consente di attribuire la responsabilità etica e politica di chi deve decidere ad un qualche organo tecnico-scientifico: la responsabilità è dei politici, di quelli che abbiamo, a capo di istituzioni (Stato, Regioni, in minor misura anche Comuni) che hanno il potere e il dovere costituzionale di decidere.

Come hanno deciso in questa prima fase dell’epidemia?  Il coronavirus ha rivelato anzitutto l’impreparazione del nostro sistema sociosanitario a fronte di un evento certamente estremo, ma non imprevedibile. Impreparazione sia a livello delle strutture ospedaliere, sia e soprattutto a livello territoriale: alla prova dei fatti il giudizio assai favorevole sul nostro sistema, prevalente anche a livello internazionale, dovrà essere rivisto. In particolare, chi avrà più il coraggio di descrivere l’esperienza lombarda come un modello per le altre regioni italiane e di conseguenza per tutti i paesi sviluppati: non basta un confronto con la vicina Germania per ridimensionare di molto questo auto-compiacimento?  Non era possibile accorgersi dello iato che si stava aprendo con i paesi che effettivamente dispongono di sistemi socio-sanitari ben organizzati e adeguatamente finanziati? Solo affidandosi all’abnegazione e all’eroismo del personale sanitario si è riusciti a limitare le perdite umane dovute al sotto finanziamento e all’inefficienza amministrativa e istituzionale del sistema.

L’esperienza della effettiva gestione della crisi, nei tre mesi trascorsi dal riconoscimento della gravità dell’epidemia, non ha fatto che rafforzare questa prima constatazione. E qui il problema è soprattutto di efficienza amministrativa e di assetto istituzionale. Per ora lasciamo da parte il coordinamento mondiale ed europeo: il virus non conosce confini in un mondo strettamente interconnesso e un coordinamento internazionale e –dispiace dirlo- europeo è del tutto mancato. Ma soprattutto non conosce confini regionali, perché quelli nazionali possono ancora servire (e non poco) per rallentarne l’espansione. Il problema è soprattutto di disegno istituzionale: la confusione e l’accavallamento di compiti e competenze tra le due istituzioni con autonoma legittimazione politica e competenza legislativa oltre che amministrativa, Stato e Regioni. Oltre al vecchio disegno costituzionale, la riforma del Titolo Quinto del 2001 è ovviamente sul banco degli accusati: riforma voluta dal Centrosinistra per ragioni politiche contingenti e poca lungimiranza (nel mio piccolo, anch’io ne sono stato corresponsabile, essendo allora deputato del gruppo sinistra democratica-Ulivo). Quindici anni dopo, il fallimento della riforma costituzionale del 2016 ha impedito un più nitido riparto tra i compiti delle Stato e delle Regioni e soprattutto la creazione di un Senato delle Autonomie: un organo costituzionale nel quale il coordinamento tra Regioni, Comuni e Stato sarebbe (forse) avvenuto con maggiore efficacia che non attraverso la Conferenza Stato-Regioni o gli affannosi contatti politici tra i presidenti regionali e il governo nazionale dettati dall’emergenza. (Per evitare fraintendimenti, dico subito che non appartengo alla schiera crescente dei nazionalizzatori del sistema: un sistema a base regionale, se ben organizzato, può essere efficiente ed efficace: sarà molto interessante studiare perché Veneto ed Emilia sembrano aver reagito alla crisi epidemica molto meglio della Lombardia).

La terza ma non ultima ragione di incapacità decisionale –anzi, la ragione principale, perché contribuisce a spiegare anche le prime due- risiede nel conflitto politico esasperato e sterile che da decenni caratterizza il nostro Paese: sta nella politica la causa profonda dell’inefficacia decisionale delle nostre istituzioni e della stessa pubblica amministrazione, come Sabino Cassese non si stanca di ricordarci. Se la differenza di orientamenti politici di fondo è così forte come quella che separa non solo le forze di opposizione dalle forze di governo ma le stesse forze che stanno governando a livello nazionale; e se ognuna di queste, di governo e di opposizione, ha come obiettivo principale non il bene del paese ma quello del partito, valutato sulla base delle precedenti elezioni, ossessivamente monitorato attraverso continui sondaggi, proiettato sulle prove elettorali successive, mi sembra molto difficile che possa prevalere un disegno in grado di affrontare efficacemente l’emergenza sanitaria e la successiva emergenza economico-sociale. E’ questa una conseguenza inevitabile di una “sana dialettica democratica”? Per restare in Europa, mi ha colpito l’esperienza greca, un paese povero ma un caso di efficacia decisionale e di buon controllo della pandemia, dove si è riusciti ad evitare l’estrema politicizzazione del problema che invece prevale in Italia. E mi ha colpito ancor di più un recente articolo su ispionline (16 aprile): Coronavirus, l’eccezione portoghese, dove tra l’altro si da notizia di un intervento in parlamento del capo del principale partito di opposizione (Rui Rio, PSD) che augura al primo ministro Costa “coraggio, nervi d’acciaio e buona fortuna” e gli promette la collaborazione del suo partito perché “la tua fortuna è la nostra fortuna”. Un atteggiamento impensabile nel nostro paese: esso dimostra però che  In una democrazia liberale risse e polemiche aspre e continue non sono inevitabili.

 Concludendo la sommaria carrellata su come è stata affrontata in Italia l’emergenza sanitaria, a me sembra che essa abbia rivelato tre carenze nel sistema decisionale pubblico: una grave inefficienza amministrativa, una forte confusione e di conseguenza un conflitto endemico nel riparto delle competenze tra istituzioni della Repubblica, una situazione politica caratterizzata da tali distanze tra i partiti e da livelli di polemica e di incomprensione reciproca così intensi da rendere impossibile uno sforzo di cui almeno le premesse siano condivise. Sono le stesse conclusioni cui si arriva analizzando il modo con il quale si sta rispondendo alla crisi economica causata dal Covid19 e ai contrasti riguardanti gli aiuti europei. Per ora mi rimane solo da dire che, mentre le due prime carenze riguardano la situazione ereditata da un passato lontano e vicino, è la terza che preoccupa maggiormente perché essa riguarda il futuro: in democrazia a chi possiamo chiedere se non al sistema dei partiti di intervenire sulle carenze del passato e a creare migliori condizioni per l’avvenire? Sono i partiti che determinano le maggioranze parlamentari che poi sostengono i governi. E sono poi i governi che  dispongono delle risorse per affrontare la crisi.


Per quanto riguarda la seconda area che intendo sorvolare –quella relativa alle misure prese o previste per riattivare l’attività economica dopo l’interruzione dovuta a ragioni sanitarie- due sono i problemi principali: il primo è un problema politico e organizzativo, il secondo riguarda le modalità di finanziamento delle misure ritenute necessarie. Sul primo la discussione infuria sui giornali e sui media, denunciando esclusioni ingiustificate o ritardi negli interventi previsti, inadempienze amministrative e istituzionali, assenza di un programma di “riapertura” che dia adeguate certezze a imprese e famiglie, o addirittura presunte lesioni costituzionali. E’ una discussione “politicizzata” nel modo peggiore, con conflitti continui tra opposizione e governo e interni alle stesse forze che pur lo sostengono. Il secondo problema riguarda soprattutto il contenzioso con l’Unione Europea circa le regole che disciplinano la politica fiscale dei singoli stati, regole che nel frattempo sono state modificate in considerazione della eccezionalità del trauma che tutti i paesi dell’Unione hanno subito. Non accenno neppure al primo problema, quello delle misure attuate o previste per sostenere l’attività economica e lenire le conseguenze più gravi e ingiuste della crisi: la somiglianza con i tre fattori che hanno influito negativamente sulla gestione della crisi sanitaria sono abbastanza evidenti. Mi limito invece al secondo, ai rapporti con l’Unione Europea: questi hanno confermato il perdurare della spaccatura di fondo tra le forze politiche del nostro paese che si era aperta nell’ultimo decennio, tra europeisti e antieuropeisti. Più in generale, tra partiti tradizionali e partiti populisti o sovranisti),

Premessa l’ovvia considerazione che il fabbisogno di finanziamento sarà tanto maggiore quanto più le limitazioni all’attività economica saranno prolungate e che la stessa capacità produttiva e competitiva del paese potrebbe essere seriamente danneggiata, tale fabbisogno dipende dagli impegni che il governo assume per sostenere il reddito delle famiglie e delle imprese: se si promette una piena reintegrazione delle perdite di reddito dovute alle limitazioni dell’attività produttiva, ammesso che ci sia la capacità di stimarle e distribuirne il rimborso in tempi rapidi, si raggiungono presto valori molto elevati. Il nostro governo ha fatto questa promessa, e ha fatto bene. Ma per ora la sta in parte mantenendo mediante il ricorso ad un aumento del proprio debito pubblico, approfittando dell’eliminazione dei vincoli che l’Unione Europea in precedenza aveva disposto e usufruendo di nuove linee di credito e nuovi strumenti che sono state creati: in particolare il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program), che consente di indirizzare l’acquisto dei titoli del debito pubblico da parte della BCE laddove sono maggiormente necessari, nonché la sospensione delle clausole più vincolanti del  Patto di stabilita e crescita. All’Europa e alla sua banca centrale non si può rimproverare di non essersi mosse per tempo. Dove l’Eurogruppo e l’Unione si sono bloccati è su uno strumento che consenta l’assunzione diretta del debito da parte dell’Unione Europea, in modo che questo non vada a gravare sul rapporto debito/PIL dei singoli stati. Insomma, sull’annosa questione degli Eurobonds o Coronabonds o dei Ricovery bonds o come si deciderà di definirli e regolarli. E qui il problema è tutto politico.

Dovrebbe trattarsi di una emissione di dimensioni molto grandi, sufficienti a rilanciare l’attività economica in tutti i paesi europei colpiti dal COVID19 e in proporzione ai danni economici subiti per tutelare la salute dei propri cittadini: dunque un intervento con un carattere di mutualità/solidarietà inevitabile. Carta bianca per i singoli paesi? Finanziamento congiunto di tutte le maggiori spese  –sia correnti che di investimento- che questi avessero deciso o decidessero unilateralmente di affrontare? Il Covid ha colpito tutti anche se con diversa intensità e dunque lo shock è simmetrico (o quasi) come dicono gli economisti, ma non sono affatto “simmetriche” o egualmente efficaci le misure che i singoli paesi stanno adottando o intendono adottare in un prossimo futuro per combattere l’epidemia o sostenere l’attività economica.  Anche in una prospettiva  in cui maturassero le condizioni per un modello di governance europea democraticamente più avanzato e organizzatìvamente più efficace, se per affrontare un problema definito come comune (all’Unione, o all’Eurogruppo) fosse necessario utilizzare risorse comuni, comune dovrebbe essere anche la definizione del progetto di utilizzo delle risorse stesse e il controllo della sua esecuzione. Anche nel modello di Unione federale di Fabbrini –per fare l’esempio di un disegno ben elaborato- dovrebbe essere così. E a maggior ragione controlli e rendicontazione non possono essere esclusi in un contesto intergovernativo, cui necessariamente occorre ricorrere se è necessario provvedere in tempi brevi.

 Vi sono Stati che per la loro solidità economica e finanziaria, per la loro efficienza istituzionale e amministrativa, per la loro stabilità politica, per la loro capacità di sfruttare a proprio vantaggio lacune palesi dei trattati che regolano la governance europea, o anche perché il Covid19 li ha colpiti con minore intensità  (in qualche caso molti o tutti questi fattori vanno insieme), hanno o pensano di avere la possibilità di fronteggiare da soli le maggiori spese pubbliche conseguenti l’epidemia: dispongono infatti di ampio merito di credito per indebitarsi sui mercati a condizioni anche migliori di quelle a cui potrebbe farlo l’Unione. Insomma, non hanno bisogno di uno strumento di solidarietà europea e fanno fatica a rendersi conto che la solidarietà in questo frangente è necessaria se l’Unione vuole sopravvivere. Fanno fatica non solo per egoismo nazionale, per concezioni economiche diverse, o in difesa di vantaggi ingiustificabili ma consentiti dall’attuale modello di governance. Ma anche e forse soprattutto per la mancanza di fiducia nei confronti di altri paesi – soprattutto dell’Italia- che di solidarietà hanno forte bisogno. Si tratta solo di (pre)giudizi? Pregiudizi alimentati da considerazioni moralistiche inaccettabili ci sono. Ma ci sono anche giudizi condivisi nel nostro stesso paese e fondati sull’esperienza degli anni successivi agli accordi di Maastricht (di qui le parentesi intorno al “pre”). l’Italia è un paese politicamente instabile e nel quale è forte la tendenza a comprare consenso politico mediante disavanzi di bilancio, ciò che l’ha condotto a un debito pubblico difficilmente sostenibile. Di qui la comprensibile preoccupazione che esso intenda approfittare di un appello alla solidarietà per allentare gli obblighi derivanti dai trattati che regolano la moneta unica.

 Sono convinto che a quei trattati si dovrà rimettere mano: la stessa Unione si è impegnata a promuovere nei prossimi anni una grande discussione collettiva su che cosa non funziona nel suo modello di governance. E lì ci sarà il modo di far valere tutte le critiche che gli stessi europeisti più convinti hanno maturato nei confronti dell’attuale modello e della sua influenza sulla divergenza economica tra gli Stati membri: se questa dovesse permanere l’Unione e soprattutto l’Eurogruppo non hanno futuro. Ma nell’immediato il problema era ed è un altro, quello di ottenere in nome della solidarietà le maggiori risorse possibili senza aumentare a dismisura il proprio debito pubblico. Questo era l’obiettivo che il nostro paese doveva porsi nei due confronti europei che si sono svolti in Aprile, il 9 alla riunione dell’Eurogruppo e il 23 nel Consiglio d’Europa. In modo fortunoso le cose sono andate (un po’) meglio di quanto si poteva temere. Ma una delle ragioni di fondo, forse la più importante, che rende insostenibile l’attuale situazione politica italiana è emersa con palmare evidenza: la spaccatura tra le forze che ancora credono nell’Unione Europea e quelle che non ci credono, e –ancor peggio- scaricano sull’Europa gran parte delle responsabilità del declino economico del nostro paese e dei disagi che nostri concittadini avvertono. Non sono solo Lega e Fratelli d’Italia a condividere e a diffondere questa deleteria convinzione. Ma lo è “di pelle” anche il maggior partito di governo, i 5 Stelle: solo con grande fatica, continue oscillazioni e conflitti interni, il Presidente del consiglio è riuscito ad avvicinare la posizione italiana a quella dalle forze europeiste, ben rappresentate nel governo (Gualtieri) e nelle istituzioni europee (Gentiloni, Sassoli).

Questa situazione politica ha però indebolito la capacità d’azione del governo: non c’è stata la possibilità di approfondire un’iniziativa comune con Francia, Spagna e gli altri Paesi maggiormente colpiti dal Covid, basata su uno strumento adeguato alla gravità della crisi come sarebbero stati i coronabonds o meglio, e non solo a parere di chi scrive, di una grande emissione di debito irredimibile. Lo scontro tra l’Italia e l’Olanda nella riunione dell’Eurogruppo ha tolto di mezzo, per ora, il ricorso al programma MES: verrà usato a richiesta solo il credito MES previsto per le spese direttamente o indirettamente connesse agli interventi sanitari, senza condizioni ma ovviamente controllate dalla Commissione nella loro effettiva destinazione. La preoccupazione che l’Italia e i paesi più deboli fossero messi in una situazione insostenibile, che la stessa Unione fosse a rischio, ha consentito alla Cancelliera tedesca di imporre il suo progetto di mediazione: il Recovery Fund, sulla base di una espansione del bilancio dell’Unione nei prossimi due o tre anni, in forma di garanzie non di contributi diretti dei singoli stati membri: dovrebbe trattarsi di 250/300 miliardi. Una parte potrebbe essere distribuita in forma di contributi a fondo perduto, in proporzione alla gravità della crisi economica indotta dal Covid; il grosso dovrebbe garantire un ricorso al mercato per titoli a lunga scadenza e a basso tasso di interesse per un totale stimato (ottimisticamente) di circa 1.500 miliardi.  Il progetto è ora affidato alla Commissione per una prima definizione operativa:  per i tempi lunghi che richiede, per le sue dimensioni (a mio avviso insufficienti) e per la parte minore che in esso avranno interventi a fondo perduto -la componente più mutualistica del piano- mi sembra però difficile che il Recovery Fund possa dare uno stimolo macroeconomico adeguato alla ripresa europea e in particolare a quella del nostro paese.

 Non resta perciò che attendere gli esiti dei negoziati in corso: sia sull’ammontare complessivo, sia sulla quota destinata a erogazioni a fondo perduto, è probabile che la Germania si schieri con la posizione restrittiva degli olandesi. Quello per ora certo è che l’Italia vedrà crescere molto il proprio debito pubblico proprio mentre crolla il suo reddito interno, passando a fine anno da un rapporto debito/Pil di 1,35 prima della crisi ad uno che potrebbe arrivare all’1,5, 1,6 o oltre, se anche solo una parte delle promesse fatte dal governo alle famiglie e alle imprese danneggiate dall’epidemia e dal blocco dell’attività economica sarà onorata. Ma che cosa avverrà l’anno successivo, quando saranno disponibili i crediti e le erogazioni del Recovery Plan? In grandissima parte si tratterà di crediti, dunque di debiti delle imprese, anche se a un tasso d’interesse molto basso e a lunga durata. Se i controlli da parte della Commissione saranno ben disegnati, se Stati e imprese di queste risorse faranno buon uso, potrebbe esserci una ripresa abbastanza rapida, ma difficilmente il rapporto debito/Pil potrebbe scendere in modo altrettanto rapido se il PIL nominale non cresce fortemente. E molte cose potrebbero andar storte: chi ci protegge nel frattempo da un’ondata di sfiducia dei mercati? Vorrà la BCE continuare ad acquistare i nostri titoli di stato, così contenendo lo spread che si aprirebbe con titoli meno rischiosi? Dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca potrebbe essere piuttosto difficile. E nel caso esplodesse una crisi di insolvenza come potrebbe l’Italia evitare di sottoporsi alla terapia completa del MES, inclusa la ristrutturazione del debito? Uscendo dall’Euro e dall’Unione Europea?  Insomma, verremmo a trovarci in una situazione assai peggiore di quella che produsse la crisi del dedito sovrano del 2011 ed ebbe il governo Monti come conseguenza politica.

Capisco il presidente del Consiglio che ha presentato il Recovery Plan come una grande vittoria per il suo governo. Capisco le opposizioni che sono contro “a prescindere”. Ma lasciando da parte dichiarazioni propagandistiche, mi preoccupa che quanto ci riserva il futuro prossimo sia oggetto di cosi scarso interesse e preparazione nel mondo politico: poche voci, di partiti e movimenti con modesto seguito elettorale. Tutti tirano un respiro di sollievo perché le principali agenzie di rating non hanno declassato il debito pubblico italiano a spazzatura. Per ora. Nessuno tra i politici che contano sembra riflettere sul problema che l’Italia è da molto tempo su un percorso insostenibile: cresce troppo poco in termini reali (e nominali, che sono quelli rilevanti: ma è in vista o auspicabile un’inflazione che riduca fortemente il valore reale del debito?) e in queste condizioni anche interessi sul debito complessivo molto bassi tendono a far aumentare il rapporto Debito/Pil, un indicatore rozzo ma efficace di sostenibilità. Quel rapporto potrebbe essere ridotto da un avanzo primario di dimensioni molto elevate, un  avanzo politicamente impossibile ed economicamente controproducente. La via maestra dovrebbe essere un forte aumento del tasso di crescita del PIL: ma stanno discutendo seriamente –i partiti- su un programma che conduca a questi risultati?   


I due esempi prima descritti forse bastano a dare un’idea delle carenze profonde che la risposta alla crisi ha rivelato nel sistema decisionale della nostra democrazia. Troppi sembrano convinti, anche tra colleghi economisti che stimo, che i nostri problemi appartengono al novero di quelli che si risolvono buttandogli un sacco di soldi addosso. Senza negare che è importante sostenere in continuazione l’attività economica perché è difficile qualsiasi riforma se nel frattempo l’economia langue, i nostri principali problemi, quelli responsabili del nostro declino, sono dovuti in gran parte al cattivo funzionamento del nostro sistema politico, istituzionale e amministrativo, le cui radici risalgono a molto addietro nel tempo. Questo li rende molto ardui da affrontare –il fallimento di quarant’anni di tentativi di riforma costituzionale è lì a dimostrarlo- e certamente impossibili da risolvere nel corso di una situazione di emergenza. Un’emergenza, però, se non viene sprecata in polemiche sterili tra le forze politiche interne o in recriminazioni astiose verso altri paesi europei, potrebbe dare origine a un mutamento di opinione che coinvolga gran parte dei nostri concittadini e li porti a riflettere sui guasti profondi della nostra democrazia e delle sue istituzioni. E di conseguenza indurli ad accettare un programma di lungo periodo che, mutuando il modo impressionistico con il quale vengono chiamate ora le leggi di riforma, potrebbe essere intitolato “Rifare insieme l’Italia”, per ricordare l’appello risorgimentale: “qui si fa l’Italia o si muore”. Questo programma dovrebbe partire da una profonda riforma costituzionale e poi articolarsi in una serie di cantieri che potrebbero operare già nel corso di questa legislatura e soprattutto della prossima.

Basta formulare il problema, per rendersi conto che è politicamente insolubile: se le forze politiche principali restano quelle che sono e si affidano nei loro obiettivi e nelle loro previsioni alle strategie elettorali che hanno funzionato meglio (per loro) nelle elezioni pre-Covid e nei sondaggi successivi, è difficile pensare che un disegno come quello cui accenno più sotto possa mai essere adottato. Ma dopo l’esperienza dell’epidemia quale potrà essere la reazione dell’elettorato? Di poche cose siamo certi salvo che delle due seguenti:  l’esperienza in corso è sconvolgente per i nostri concittadini; l’elettorato è da tempo estremamente fluido, capace di spostamenti repentini. In queste condizioni non potrebbero essere premiate dagli elettori le forze politiche che si presentassero con messaggi meno violenti e irrealistici di quelli che hanno favorito i movimenti e partiti populisti e sovranisti nel recente passato? E questi stessi partiti, fiutando il cambiamento del vento elettorale, non potrebbero modificare il messaggio che rivolgono agli elettori? Credo che valga la pena di esplorare un po’ più a fondo questo scenario, se non altro per rendersi conto se esso sia auspicabile e, soprattutto, minimamente realistico.

Facciamo allora un piccolo esperimento mentale, oltre i confini della stessa fantapolitica. La via maestra per “rifare l’Italia” potrebbe essere un governo di unità nazionale, guidato da un presidente del Consiglio il cui prestigio nazionale e internazionale fosse molto alto, composto dalle migliori competenze disponibili nel nostro paese, sia nel mondo politico che al di fuori di esso. Il compito di questo governo sarebbe duplice: gestire l’emergenza sanitaria ed economico-sociale nel contesto dell’attuale Unione Europea e assicurarsi che il processo di riforma costituzionale si svolga nei tempi minimi previsti dalla Costituzione: tre anni, quanti intercorrono fra oggi e le prossime elezioni politiche, bastano e avanzano. L’impegno che i partiti dovrebbero assumere è quello di sostenere il governo senza defezioni (lo ripeto: senza defezioni) sino alla fine della legislatura, a differenza di quanto avvenne per il governo Monti; identificare un candidato comune per il ruolo di presidente della Repubblica, la cui elezione è prevista fra poco più di un anno e mezzo;  trovare un accordo sulle procedure (Commissione Bicamerale?) e sugli indirizzi fondamentali della riforma. Poi elezioni politiche ed eventuale referendum confermativo: se regge l’unità nazionale la riforma può passare con una maggioranza in entrambe le camere ben superiore ai due terzi, ma c’è ancora in ballo la riforma sulla riduzione del numero dei parlamentari che richiede un referendum, a meno che non possa essere incorporata nella riforma più generale. Nella riforma costituzionale potrebbero anche essere inclusi i principi base della legge elettorale, in modo da rendere molto difficili continui cambiamenti motivati da presunte e occasionali convenienze dei governi in carica.

Dopo le elezioni, se lo spirito che ha sostenuto il governo di Unità Nazionale e la riforma della Costituzione avrà indotto ad un avvicinamento nelle posizioni dei partiti, la politica potrebbe riprendere il suo corso sul nuovo binario costituzionale e dedicarsi ai cantieri che dovranno essere istallati per “rifare l’Italia”: pubblica amministrazione, scuola, regioni, giustizia, mezzogiorno, cui dovrà ovviamente aggiungersi il rilancio dell’economia e dell’occupazione, e la lotta contro la povertà …. Se, per fissare le idee, il nucleo della riforma costituzionale del governo seguirà un modello simile a quello semi-presidenziale francese, alcuni degli ostacoli che oggi si frappongono ad una democrazia, liberale sì, ma capace di decidere, dovrebbero essere risolti dalla riforma stessa. Altri no, e non rimane che augurare che uno spirito pentecostale (“Spiritus Sanctus descendat super vos et maneat semper”) aleggi a lungo sul sistema politico italiano. Se non sempre, quanto basta per fare le riforme necessarie. Al di là dell’augurio, la riforma costituzionale ed elettorale  introdurrebbe una tale discontinuità nel sistema e un velo d’ignoranza cosi spesso sugli esiti di future elezioni politiche da rendere meno rilevanti i calcoli sulla base dei quali i partiti si muovono oggi, con l’attuale costituzione e una legge elettorale quasi  proporzionale.

Che la realizzazione di un disegno come quello abbozzato sia auspicabile, sia per il nostro paese, sia per rovesciare i (pre)giudizi dominanti in Europa, nelle cancellerie di tutto il mondo e soprattutto nei mercati, non avrei dubbi. Il disegno è auspicabile anzitutto per l’Italia, quale che sia il suo destino e quello dell’Europa. Se le cause del declino sono quelle prima accennate e dunque cause essenzialmente interne, una democrazia più capace di decidere, più competente e meno rissosa, disorganizzata e conflittuale non può che collocare l’italia in una situazione migliore di quella odierna per affrontare i difficili problemi che si prospettano per il futuro e di cui il coronavirus non è che l’antesignano: si pensi soltanto all’emergenza dei cambiamenti climatici. Si tratterebbe di una democrazia liberale, in cui i diritti individuali e le garanzie costituzionali sono rigorosamente rispettati e nella quale una vigorosa dialettica tra destra e sinistra consente di rappresentare gli interessi e le aspirazioni dei ceti più svantaggiati della società, un requisito indispensabile alla sostenibilità nel tempo degli stessi caratteri liberali della democrazia. La sottolineatura dell’efficienza e della capacità e rapidità decisionale del sistema politico/istituzionale/amministrativo non deve far temere una deriva autoritaria alla Orban, di cui, per ora, in Italia, mancano gran parte dei presupposti. Anzi, si tratta di una via democratico-liberale alternativa a quella di Orban.

Ugualmente non ci sono dubbi che lo stesso disegno sia auspicabile per i suoi riflessi internazionali, molto importanti in un contesto europeo e di globalizzazione, come abbiamo prima sottolineato. L’attenuazione dei (pre)giudizi nei confronti dei nostro paese e dunque il suo rafforzamento in un contesto europeo e internazionale sarebbero una conseguenza della convinzione crescente che l’Italia ha cambiato rotta. Questa convinzione potrebbe già maturare in tempi brevi, in seguito alla constatazione che finalmente esiste per il resto di questa legislatura un governo adeguato, forte e competente. E potrebbe consolidarsi se la riforma costituzionale garantisce che governi “adeguati”, sia pure con diverse accentuazioni politiche, saranno una caratteristica durevole del nostro paese. E se poi questi governi gestiranno bene l’economia e cominceranno a incidere sull’inefficienza amministrativa e la confusione istituzionale che attualmente caratterizza il nostro sistema decisionale pubblico, lentamente gli attuali (pre)giudizi potrebbero affievolirsi.


Non credo valga la pena di attardarsi ulteriormente sul nostro esperimento mentale. Ne ho descritto i principali caratteri in modo sufficientemente dettagliato perché di governi di unità nazionale circolano diverse versioni, del tutto inadatte al proposito di “rifare l’Italia”. Alcune sono semplici espedienti per sbarazzarsi il più rapidamente possibile di Conte e del governo rosso-verde: ma un governo di “unità nazionale(?)” con dentro alcune delle forze politiche attualmente all’opposizione –insomma, un piccolo ribaltone, nell’improbabile ipotesi che il Presidente della Repubblica lo consenta- ne lascerebbe fuori altre che poi potrebbero fomentare l’insoddisfazione degli elettori contro il governo, secondo lo schema che ha portato al successo i partiti populisti negli anni scorsi: non insegna nulla l’esperienza successiva al governo Monti? Anche altre versioni, meglio intenzionate, non prendono in considerazione la riforma costituzionale, che è invece la cartina di tornasole dell’intero disegno, il modo in cui le diverse forze politiche presenti in parlamento si impegnano sui principi di fondo in base ai quali l’Italia dev’essere rifatta. Senza escludere che versioni meno difficili e impegnative possano essere trovate, questa mi sembra l’unica che risponde ai problemi che da almeno quarant’anni sono sul tappeto, anche prima che iniziassero i fallimentari tentativi di riforma costituzionale. Ma è proprio l’ambizione e la difficoltà del progetto che mi rendono pessimista sulle sue possibilità di attuazione.

Ammettiamo pure che in tutte le forze politiche che ora siedono in Parlamento esista una preoccupazione sincera che l’Italia si trovi di fronte ad una giuntura critica e corra il rischio di abbandonare o essere espulsa dall’Europa, oppure di restarci ma in condizioni di crescente marginalità politica e asfissia economica. Ma dove trovare una persona cui i partiti affidino il compito di Presidente del consiglio di un governo di unità nazionale? Ai tempi della crisi d’Algeria, in Francia quella persona esisteva ed aveva chiari in mente i principi costituzionali che avrebbero consentito al suo paese di cambiare rotta. C’era e disponeva di una immensa popolarità, proprio per il suo passato politico e militare e per l’insofferenza nei confronti delle beghe dei partiti che l’avevano indotta ad un ritiro sdegnoso dalla politica. Insofferenza che gran parte della popolazione condivideva. Oggi in Italia una personalità ad essa paragonabile non c’è: abbiamo ottimi “tecnici”, alcuni con notevoli capacità organizzative e buone esperienze in incarichi politici, ma nessun vero politico dotato di una fonte autonoma di consenso. Si tratterebbe allora di un governo tecnico? Non esistono governi tecnici: anche quello di Monti era un governo politico, basato su una maggioranza in parlamento, finché ha retto. E lo sarebbe quello prima abbozzato, anche se il presidente del consiglio designato non fosse un capo di partito o disponesse di grande popolarità personale: neppure Prodi ne disponeva ai tempi dell’Ulivo, che era un’alleanza parlamentare composta da due partiti divisi da un trattino, ognuno con il suo segretario. Si tratterebbe dunque di un governo politico con un ampio consenso parlamentare su tre impegni di fondo: il sostegno al governo fino alla scadenza della legislatura, la Presidenza della Repubblica, l’accordo sulle procedure e le linee guida della riforma costituzionale. I singoli parlamentari, naturalmente, non sono tenuti a rispettarli anche se i loro partiti glielo imponessero, perché non esiste un obbligo di mandato e possono sempre cambiare idea. Se la cambiano in tanti, l’intero disegno può sempre essere bloccato.

E’ assai più probabile che non possa neppure partire. Un grande accordo come quello cui abbiamo accennato avrebbe infatti effetti asimmetrici nel quadro politico attuale: metterebbe in contraddizione i due grandi partiti populisti (5stelle e Lega) con le strategie elettorali che li hanno sinora favoriti –la Lega in particolare- senza garantire loro un successo comparabile qualora mutassero radicalmente il loro orientamento politico. E’ vero, sul futuro c’è un velo di ignoranza e nel presente grandi sofferenze e preoccupazioni degli elettori, che li potrebbero indurre a imprevedibili cambiamenti di opinione. E nelle stesse forze populiste esistono personalità che non si opporrebbero ad un deciso mutamento di rotta politica, un mutamento che consentisse loro di intercettare o addirittura a indirizzare l’orientamento degli elettori in quella direzione. Nei partiti più tradizionali e moderati un radicale mutamento di rotta non dovrebbe creare contraddizioni così forti come nei partiti populisti, anche se difficoltà non piccole si possono attendere quando si arrivasse a quegli aspetti della riforma costituzionale sui quali essi –PD e Forza Italia, in particolare- hanno sempre registrato differenze insanabili. Temo tuttavia che le forze che in questo momento agiscono avendo come orizzonte una continuità col passato siano di gran lunga prevalenti su quelle convinte che un radicale cambiamento sia necessario.

La metafora dei Lemming con cui ho iniziato questo articolo descrive la situazione come la vede un osservatore esterno, non come la vedono i loro capi: un tuffo nelle gelide acque del mare del Nord non è immediato. E in questo hanno ragione: nel futuro immediato la situazione sarà peggiore, ma non troppo diversa da come è stata nel recente passato, un debito pubblico ancor più gravoso, sofferenze e proteste diffuse, asfissia economica, polemiche continue con l’Unione Europea. Dunque una situazione nella quale i partiti populisti hanno dimostrato di sapersi muovere a proprio agio. E’ solo in un futuro un po’ più lontano, ma non lontanissimo, che potrebbe prospettarsi come imminente una vera tragedia e solo allora, se non i singoli lemming, i loro capi se ne accorgerebbero: quando però l’esito di una ristrutturazione del debito o di un abbandono del sistema monetario europeo fossero molto vicini o addirittura inevitabili. Ma di queste conseguenze disastrose entrambi i movimenti populisti non sembrano convinti: essendo per loro l’Europa -e non le disfunzioni politico/istituzionali/amministrative del nostro paese- la causa principale del declino italiano, essi ritengono che, dopo un breve periodo di adattamento, l’uscita dall’Euro e il tuffo nel mare del Nord avrebbero un effetto  rigeneratore. Non un disastro, ma una salubre nuotata in acqua fresca.

Scrivevo all’inizio che queste riflessioni mi avevano condotto ad un esito inconcludente. Rettifico quell’affermazione: è inconcludente se viene misurato sull’obiettivo di identificare una via d’uscita realistica e positiva dalla crisi imminente. Purtroppo non è inconcludente la previsione, realistica ma negativa, che tale via non esiste. Ovviamente spero di sbagliarmi, spero che anche senza governi di emergenza e riforme costituzionali, altre risorse di cui  non ho tenuto conto consentano all’Italia di cambiare rotta politica facendo leva sulle circostanze eccezionali dell’epidemia e sul ripensamento del sistema di governance dell’Unione Europea. Ma se tutto va avanti come sta andando ora, in Italia e in Europa, il tuffo nelle acque gelide del mare del Nord è soltanto ritardato.    

Michele Salvati