L’isolamento sociale cui siamo costretti porterà alla riduzione della diffusione del Covid-19, contribuendo così alla tutela della salute fisica degli individui.

In questo breve articolo – apparso sul Corriere della Sera il 15 marzo e diffuso dall’autore attraverso la propria pagina Facebook – il dr. Alberto Pellai, già apprezzatissimo ospite degli incontri del Progetto Genitori, si interroga sul bisogno di socialità dell’essere umano e sulla necessità di tutelare anche la salute mentale delle persone.

COME IN CAST AWAY: bisogna salvare anche la salute della mente

In Cast Away Tom Hanks interpreta il ruolo di Chuck Noland un ingegnere che, unico sopravvissuto di un incidente aereo, approda su un’isola deserta. E’ solo, intorno a lui mare e natura. Quella natura gli consente di sopravvivere perché beve acqua di cocco e mangia polpa di granchi. Si scalda imparando ad accendere il fuoco, con mezzi di fortuna. Ma sopravvivere non è garanzia di riuscire a vivere. La solitudine ti può uccidere quasi quanto la mancanza di cibo. E allora Tom Hanks prende un pallone che è tra i detriti che la corrente del mare spinge verso la riva. Quel pallone si trasforma in un pupazzo, di nome Wilson, proprio come la marca che c’è impressa sul cuoio. La mano che sanguina permette di disegnare sulla superficie i tratti del volto. E Wilson sarà lo strumento che Chuck si dà per avere qualcuno con cui parlare e confidarsi, per non sprofondare nella follia nel suoi giorni di deserto.
E’ così: le neuroscienze ci hanno dimostrato in questi anni che la nostra è una mente relazionale. Cresce, si sviluppa, si struttura, si stabilizza solo all’interno delle relazioni. La salute mentale non possiamo darcela da soli. Possiamo solo trovarla nell’incontro con l’altro. La solitudine ci renderebbe folli. E ci sono infinite ricerche che dimostrano come la deprivazione relazionale si trasformi velocemente e inevitabilmente in problema di salute mentale.
L’emergenza coronavirus impone come priorità assoluta che venga tutelata la salute del corpo. E in questo momento ciò comporta che negli organismi suscettibili non venga fatto entrare il virus che sta muovendosi nel mondo, ormai con andamento pandemico.
L’ideale, in questa prospettiva, sarebbe chiudere ogni singola persona in una cella isolata. Li fornirle il cibo che le serve per sopravvivere, fino a che l’emergenza non sarà terminata. In questo modo terremmo vivo il corpo ma rischieremmo di far morire la mente. Come ci insegna l’Organizzazione Mondiale della Salute (la stessa Agenzia che ora sta cercando di gestire su scala mondiale questa pandemiaì), la nostra salute è il risultato di in equilibrio dinamico tra tre dimensioni su cui si fonda l’intera nostra esistenza: corpo, mentre, relazioni. In questo momento tutte le indicazioni che ci vengono date servono a tenere vivo il corpo. Tali indicazioni proteggono dal Coronavirus ma possono mandare in cortocircuito l’equilibrio che ciascuno di noi ha imparato a costruire nella sua quotidianità. Per questo è importante evitare che ci si salvi, ma ci si trovi poi in difficoltà su altri fronti.
Potrebbe esserci, per alcuni o molti di noi, un’emergenza nell’emergenza attuale: è l’emergenza salute mentale, o meglio “l’emergenza tenuta”. Come resistere per molti giorni in uno stato di isolamento sociale senza avere conseguenze per il nostro equilibrio mentale? Siamo tutti come Tom Hanks sull’isola deserta, in questo momento. E non sappiamo chi può essere il nostro “Wilson”.
Come psicoterapeuta penso a molte situazioni concrete che in questo frangente rischiano di andare incontro a scompensi non di ordine infettivologico, ma psichico.
Penso ai figli unici barricati in casa con genitori che magari vivono una fragilità di coppia. E non so immaginare quali risorse quel sistema a “tre” possa trovare per affrontare le prossime settimane senza alcun contatto con l’esterno.
Penso agli anziani barricati in casa in totale isolamento sociale, che tra l’altro vengono raccontati come i più vulnerabili. E quindi devono gestire, oltre all’isolamento sociale, l’angoscia di morte che li attanaglia.
Penso ai tantissimi adolescenti che sono senza supporto e indicazioni, chiusi tra le pareti di casa, persi nei videogiochi per ore. Avremo un’epidemia da isolamento sociale che rischierà di trapiantare anche in casa nostra il fenomeno giapponese degli Hikkikomori (che in parte già stiamo vedendo)
Penso ai molti pazienti fragili che non possono usufruire delle loro sedute di psicoterapia settimanale in presenza col loro terapeuta, perché hanno troppa paura ad uscire di casa. E quindi magari gli parlano al telefono o via skype. Ma noi sappiamo benissimo che un conto è incontrarsi e un conto è “parlarsi a distanza dentro uno spazio virtuale”.
Penso che dopo aver fatto quello che andava fatto – ovvero chiuderci nelle case – perché questa cosa non l’avevamo proprio capita, adesso sarà importante che ciascuno possa essere aiutata a trovare i modi per stare dentro a questa emergenza senza impazzire. So che è un argomento scabroso e impopolare, parlare del fuori e dell’altro, oggi in cui le uniche due parole chiave che ci vengono dette è “dentro” e “nessuno”. Ma fuori e altro devono continuare a vivere anche in questa dimensione da reclusi. Come si fa? Qualcuno deve raccontarlo al mondo. E’ un passaggio necessario. Direi obbligatorio.
Qualcuno deve dire ai genitori se, come e quando si può portare un bambino a fare una passeggiata nel bosco (per chi ce l’ha vicino a casa) senza fare qualcosa che è contrario alla legge e alle regolamentazioni. Oggi molti hanno paura che non si possa fare. E perciò non escono nemmeno per una cosa così, che non diffonderebbe alcun rischio di contagio.
Forse potrebbe essere utile pensare di creare piccole famiglie allargate in cui due nuclei famigliari fatti di sole 2 o 3 persone (genitori single o con un figlio unico) si possono contattare e tenere in relazione, con la regola che non abbiano interazioni con anziani e altri nuclei e consigliandogli di viversi con lo stile di una famiglia allargata. Dico questo anche per esperienza personale: sono genitore di quattro figli e in questi giorni il nostro essere “numerosi” ci ha permesso di avere una buona qualità della vita sotto questo punto di vista.
Penso davvero che la gente debba sapere che il proprio corpo ha bisogno di continuare a sentirsi vivo. Perché stare per settimane seduti sul divano a sentire di continuo voci allarmanti e spaventate potrebbe spingere i più vulnerabili alla depressione. E al progressivo allontanamento dal principio di realtà.
Sono temi che oggi nessuno tocca perché la priorità è salvarsi la vita, attraverso l’isolamento sociale. E questo è sacrosanto. Ma in questo sopravvivere, però bisogna capire anche come continuare a vivere.

Questo mio articolo apre il dibattito sull’emergenza nell’emergenza: quella relativa alla salute mentale di tutti noi e in particolare delle persone più fragili. E’ un tema di rilevanza fondamentale. Sembra stare sullo sfondo, viene esplorato poco. Ma diventerà crescente, giorno dopo giorno. Voi cosa ne pensate?

Alberto Pellai