“Non si è mai parlato tanto di comunità come oggi, con la paura di perderla a causa del periodo di emergenza sanitaria che stiamo attraversando”. Il professor Marco Aime, docente di Antropologia Culturale all’Università di Genova, ha iniziato così l’incontro Ricostruire le comunità: dal locale, al globale passando per il virtuale organizzato in collaborazione con l’Associazione PerCorsi nell’ambito del Festival delle Conoscenze, promosso da Fondazione Acos per la Cultura.

In dialogo con Bruno Barba, anch’egli antropologo dell’Università di Genova, Aime ha spiegato come, a partire dal periodo industriale, nelle grandi città, con gli spazi dilatati e i movimenti prevalentemente in auto, è avvenuta una disgregazione della comunità, caratterizzata anche dalla separazione netta tra il tempo del lavoro e quello personale. Con le comunicazioni a distanza, prima col telefono poi con lo smartphone, il modello consumistico individualistico e la perdita di certezze come il welfare, l’idea di comunità si fa più urgente.

Il termine, declinato sempre al singolare, ci fa pensare all’unità ma nella nostra esistenza facciamo parte di varie comunità. “Ogni comunità è il prodotto di una finzione: dobbiamo fingere di avere qualcosa in comune per costituirla, tracciando una linea che separa noi dagli altri” ha detto il professore.

La comunità si oppone all’individualismo perché è un concetto che prevede il mutuo scambio, l’aiuto e la solidarietà. La città, per le sue dimensioni, non favorisce l’idea di comunità, ma fa nascere sotto-comunità: il professor Aime ha portato ad esempio il centro storico di Genova, dove le relazioni sono più forti rispetto ai quartieri residenziali. La comunità non si oppone invece alla modernità: se viene a mancare è perché le comunicazioni si spostano troppo sui canali on line ma si generano comunque altre communities. Insomma la comunità non è antimoderna, si adatta e si rimodella.

Durante il lockdown, la rete ci ha aiutato molto a mantenere i contatti e i legami: “Solitamente incide sulle relazioni, ma in questo caso ha attutito il colpo dell’isolamento” ha spiegato Marco Aime.

Le comunità sono suscettibili alla variazione, possono riconfigurarsi rapidamente, sono varie per ognuno di noi. “Ma per sopravvivere hanno bisogno di essere ravvivate”, secondo il relatore.

Un esempio di comunità è la classe: anche con il ritorno degli studenti a scuola, mancano i piccoli rituali come l’intervallo o le gite. La scuola manca ai ragazzi, con la didattica a distanza si è spostato tutto in una dimensione domestica e sono emerse le disuguaglianze sociali (case piccole, rete non efficiente). E lo stesso avviene con lo smartwork: andare al lavoro è socializzante.

Se usate bene, la rete e le tecnologie possono favorire il decentramento e il ripopolamento dei piccoli centri. La rete è neutra come tutte le tecnologie, dipende dall’uso che se ne fa: del web dobbiamo cogliere i frutti positivi, hanno concluso Aime e Barba. Riguardo agli atteggiamenti negativi che possono nascere in rete, i relatori hanno ricordato che “ciò che è prodotto dall’uomo, è voluto dall’uomo”.