con la partecipazione, oltre all’autore, di Marco
Ventura, ordinario di Diritto ecclesiastico
e di Diritto comparato delle religioni presso l’Università di Siena, di
Roberta Aluffi Beck-Peccoz, ordinario di Diritto
musulmano e di Diritto dei Paesi afro-asiatici presso l’Università di
Torino e
di Alessandro Ferrari, associato di Diritto canonico e di
Diritto ecclesiastico presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli
Studi dell’Insubria, professore di Law and Religion al Master di Diritto
comparato delle Religioni presso la Facoltà teologica di Lugano.

Marco Ventura avverte che il volume in presentazione è
uscito nel 2004 e che nel 2007 è stato riproposto in una nuova edizione, con
una nuova postfazione dell’autore.

È un’opera che, nel suo aggiornamento, ha il merito
di accompagnare il lettore attraverso fatti divenuti progressivamente più familiari
e importanti per ognuno di noi, considerato che anni fa l’approfondimento del
mondo islamico coinvolgeva solo qualche esperto.

La
postfazione rimette in prospettiva gli argomenti trattati, risvegliandoci a un
tema di grande attualità e problematicità.

L’Islam,
infatti, evoca tutta una serie di significati, di interrogativi e di emozioni,
individuali e collettive, che il libro, secondo Ventura, affronta con lucidità
e passione partendo da un dato di fatto, ovvero che l’Islam, ormai, è una
realtà quotidiana nella nostra società.

Si
tratta, allora, di fare chiarezza tra quello che appartiene alle nostre paure e
alle nostre emozioni e quello che inerisce a un dato di realtà, consci delle
difficoltà dovute all’uso, inevitabile, di categorie interpretative spesso
inadeguate a racchiudere un fenomeno complesso quale è l’Islam.

L’autore,
quindi, conclude Ventura, si concentra su uno dei problemi in discussione,
ossia tenta di mettere in relazione la questione della democratizzazione delle
società musulmane con quella del rapporto tra Occidente e Islam. Così facendo,
però, apre già altri interrogativi sul significato e sull’univocità del termine
«democrazia» e sulla sua esportabilità. Da ultimo pone il problema se l’Islam
possa svilupparsi attraverso il nostro modello di democrazia.

 

Alessandro Ferrari inizia
il suo intervento con una premessa metodologica sulla necessità di individuare
il soggetto a cui spetta stabilire la definizione di Islam e quella di
democrazia. Propone quindi tre argomenti di riflessione.

In
primo luogo, Ferrari si chiede se non si debba, più che occidentalizzare
l’Islam, de-occidentalizzare la democrazia, posto che se si guarda agli apporti
che la democrazia avrebbe dato ai Paesi musulmani ne emerge un completo
fallimento.

Ecco
allora, afferma Ferrari, che l’Islam va considerato, più correttamente, un
Occidente perduto da recuperare e non qualcosa al di fuori dell’Occidente.

L’Islam,
d’altronde, è profondamente incorporato all’Occidente e questo dato emerge da
tanti elementi: siamo di fronte a una religione del libro, a una religione
della legge, che si apre al concetto di legislazione a differenza delle
religioni orientali (dove non esistono legislatori divini ma piuttosto ordini
cosmici), a una religione che, come il Cristianesimo, ha conosciuto la lotta
per l’interpretazione del testo. Leggendo poi, ad esempio, la descrizione della
democrazia egiziana e delle difficoltà in cui si dibatte, a Ferrari viene in
mente un parallelismo con la situazione dell’Italia ottocentesca, in cui c’era
una minoranza liberale che governava un «Paese reale» cattolico e che ha
cercato di confinare lo scontro sul piano istituzionale, concedendo di fatto, a
livello sociale, ampio spazio al Cattolicesimo, per evitare il trasferimento
dello scontro dal vertice alla base. In Occidente, d’altronde, esiste da sempre
un difficile rapporto tra democrazia e decisionismo. Churchill amava dire che
la democrazia è bella se a decidere si è in due e uno di questi è malato.

Se
consideriamo l’Islam come una parte dell’Occidente, allora la considerazione
del mondo musulmano potrebbe forse aiutarci a leggere più attentamente anche
noi stessi.

Il
secondo argomento trattato dal relatore riguarda il problema di quale
democrazia si vuole esportare, visto che si pretende di espandere una
democrazia illuministica quando nell’Occidente essa sta vivendo profondi
cambiamenti, con l’esito paradossale di auspicare una democrazia musulmana a
imitazione di un modello democratico che in Occidente non esiste più.

È bene, quindi, ? secondo l’insegnamento
aristotelico per cui è lo straniero a dirci chi siamo ? interrogarci prima su
noi stessi, sul ruolo e sull’importanza della società civile nelle democrazie
occidentali, sul grado di tutela delle nostre minoranze, sulla nostra capacità
di metterci alla prova in merito all’effettività dei diritti che si ritengono
già acquisiti.

Solo
così, conclude Ferrari, saremo pronti a riconoscere i contenuti della
democrazia, anche se hanno o avranno «un’espressione culturale» diversa dalla
nostra, a prestare attenzione alle trasformazioni che avvengono all’estero con
il coraggio della sfida ermeneutica, che consiste nel non credere che
l’esistenza di un testo rivelato ne impedisca la discussione e
l’interpretazione.

«Non
c’è testo più aperto di un testo chiuso», diceva Umberto Eco, e la storia dei
diritti religiosi è evidente esempio di come la fonte scritturistica possa
favorire il dinamismo della conoscenza.

 

Roberta Aluffi
Beck-Peccoz rimarca come il libro si apra ricostruendo il clima politico
attuale, nel quale l’esportazione della democrazia è considerata lo strumento
più efficace per garantire la sicurezza, ma evidenzia come, al tempo stesso, la
democrazia, proprio nell’intento di garantire la sicurezza, sia stata limitata
negli Stati Uniti dopo l’11 settembre.

Ecco,
allora, che dobbiamo comprendere che cosa vogliamo esportare, partendo dal
presupposto che l’Islam, iracheno, afgano, egiziano o yemenita che sia, è
profondamente influenzato, in una sorta di smaterializzazione dei confini, da
quello che avviene all’interno dell’Europa.

Il testo di Guolo, secondo Aluffi, chiarisce quali
devono essere gli ingredienti perché una democrazia, una democrazia liberale,
quindi non limitata ai processi elettorali ma supportata dal riconoscimento
delle libertà e dei diritti, possa prosperare nel mondo islamico.

Guolo,
ad esempio, si sofferma sui diritti delle donne, e la Aluffi si chiede se il
problema della condizione della donna nell’Islam sia radicalmente diverso da
quello che conosciamo in Europa. Per citare un esempio della storia, è noto che
Lord Cromer, governatore dell’Egitto, fosse famoso per le critiche che
rivolgeva alla situazione in cui le donne egiziane in quanto musulmane si trovavano
a vivere; però ogni volta che rientrava in Inghilterra non perdeva l’occasione
di parlare male delle suffragette.

Alcuni
dati sono contrastanti: basti ricordare che se si guarda alle percentuali di
donne nei parlamenti del mondo scopriamo che Italia e Stati Uniti sono dietro
alcuni Paesi musulmani.

La
vera differenza nella condizione della donna tra i Paesi musulmani e il resto
del mondo, allora, sta piuttosto nella sacralizzazione dell’inferiorità
femminile, che trova la propria radice nel Corano. Dato che il Corano è fonte
del diritto e che la religione islamica è una religione giuridica, nel mondo
arabo musulmano gli Stati che legiferano sulla famiglia devono tenere conto di
questo modello religioso, non facilmente superabile come se si trattasse di una
semplice consuetudine o tradizione.

La
soluzione, secondo Aluffi, è quella, per citare Mohammad Sharfi, attivista
tunisino dei diritti umani, di liberare il diritto dalla religione, cioè
liberare il diritto da questo incombente e ingombrante modello
giuridico-religioso; e quindi, prima ancora, occorre trasfor-mare il diritto
religioso in un’etica: l’Islam deve diventare un principio ispiratore per
l’attività di individui e gruppi.

Diventa
allora necessario creare una scena politica per soggetti politici di
ispirazione islamica, che accettino, però, la vittoria alle elezioni di altri
partiti, che acconsentano a negoziare il contenuto delle leggi, che non
pretendano che lo Stato applichi il diritto musulmano.

L’Islam europeo, in questa opera di trasformazione
del diritto in etica, potrà assumere un ruolo centrale, posto che in Europa
nessun musulmano, una volta uscito dal conformismo olistico che caratterizza i
Paesi d’origine, pensa che lo Stato nel quale è emigrato debba applicare il
diritto islamico. Piuttosto egli tende ad adottare determinati comportamenti e
certe regole come espressione di una scelta religiosa personale, e non per
spirito di conformazione. Ad esempio, se si guarda al velo e ci si chiede quale
sia la sua funzione, la risposta è che è quella di proteggere dallo sguardo; ma
se si trasporta il velo in Europa, questo attira gli sguardi, cioè non
rappresenta più un modo per conformarsi a un ambiente.

Il
termine shari’a, conclude Aluffi, è oggi tradotto come «diritto sacro»,
ma un domani potrà diventare una «via etica».

 

Renzo Guolo esordisce
dichiarando una certa insoddisfazione per il libro, dovuta all’inadeguatezza
dello strumento rispetto alla complessità del tema in esso affrontato.

Se,
infatti, dice Guolo, ci si interroga giustamente su quale democrazia vada
esportata, si dovrebbe scrivere un trattato politologico e giuridico
esclusivamente per spiegare che cosa sia la democrazia, se quella liberale
classica, o quella sostanziale, o quella progressiva.

Preso
inevitabilmente un parametro, resta pur sempre, quindi, il problema di
individuare in primo luogo chi decide, chi fissa il linguaggio.

Il
libro analizza due chiavi di lettura del mondo post 11 settembre 2001, a
partire dall’idea, fatta propria dall’amministrazione Bush e, più in generale,
dai neo-conservatori americani, secondo la quale la sicurezza dell’Occidente
debba essere garantita dall’esportazione della democrazia, ossia l’idea che il
mondo debba uniformarsi ai canoni democratici fissati dalla tradizione liberale.

Questo
processo, a ben vedere, è già fallito: la guerra in Iraq e la situazione in
Afghanistan, secondo Guolo, possono essere equiparate alla situazione dei Paesi
arabi nel 1967, quando la loro sconfitta nella guerra dei Sei Giorni significò
la fine delle ideologie nazionaliste di matrice occidentale.

Il
fallimento dell’esportazione della democrazia manu militari in Iraq rischia di indebolire l’idea stessa di
democrazia, sempre meno appetibile perché associata al conflitto permanente e
alla guerra civile.

L’autore,
inoltre, ricorda che il tentativo di esportare la democrazia cosiddetta
liberale è fallito, anche perché il tutto si è ridotto al mero processo
elettorale: si è avuta, in altri termini, un’enorme catena di elezioni, che non
ha però toccato l’architrave delle società che si pretendeva di democratizzare.

Oggi
siamo di fronte a una profonda trasformazione del mondo islamico e già parlare
genericamente di Islam è limitante. Storicamente, infatti, il mondo islamico si
è sviluppato in maniera differenziata e ha saputo anche distinguere tra
politica e religione, pur rimanendo, anche nei regimi laici, il riferimento
all’Islam come fonte della legge.

Questa
pluralità di voci si vede soprattutto in Europa, dove abbiamo quasi venti
milioni di musulmani che vivono la loro religiosità in maniera diversa. I
sociologi hanno individuato quattro categorie idealtipiche alle quali
ascriverli:

 

1. una minoranza di secolarizzati, che hanno abbandonato
la religione nei comportamenti quotidiani;

2. il gruppo di coloro
che, pur professandosi non credenti, dà molta rilevanza alla pratica dei riti e
interpreta l’Islam come appartenenza culturale;

3. gli osservanti
tradizionalisti;

4. chi pensa di
re-islamizzare la comunità, di costruire una comunità socialmente integrata ma
culturalmente separata.

 

In Europa, secondo Guolo,
l’Islam ha una grande occasione: vale a dire la possibilità di ripensare il
proprio rapporto con la religione e da qui anche il rapporto con la politica e
la democrazia. È l’occa-sione di ripensare la religiosità in un contesto di
pluralismo religioso e giuridico in cui non c’è evidenza sociale, ma la
religiosità va quotidianamente rivissuta e reinterpretata rispetto al contesto
nel quale si vive.

In
questo modo, è certo, si favorisce un fenomeno di individualizzazione molto
forte, ma il percorso individualista non ha necessariamente un esito scontato:
se ne può uscire in termini di abbandono della religione o di un rafforzamento
dell’identità reinterpretata in senso fondamentalista.

L’esito
è aperto ed è condizionato anche, sottolinea Guolo, dal nostro atteggiamento
verso i musulmani in Europa.

Viviamo
in un mondo sempre più interconnesso, che non è e non sarà più per molto tempo
mono-culturale e mono-etnico, ma se i mezzi di comunicazione di massa e la
facilità nei trasporti non consentono il distacco delle comunità immigrate dai
Paesi d’origine, non è detto che questo debba necessariamente favorire una
virata verso elementi identitari. Certo, molto dipende dai limiti dei modelli
di integrazione culturale adottati in Occidente: quello multiculturalista
britannico, ad esempio, ha il pregio di riconoscere l’identità altra, ma ha il
difetto di favorire l’integrazione soprattutto all’interno del gruppo, con il
risultato di creare comunità parallele. Ma è anche vero che questi modelli
possono trasformarsi, grazie ai musulmani che vivono in Occidente e alla
formazione di un’opinione pubblica nel mondo islamico, attraverso i mezzi di
comunicazione di massa (si pensi ad Al Jazeera). È questa una novità
importante.

L’Islam
ci interroga sul piano dei rapporti internazionali, sul piano dei rapporti con
le altre religioni, sul piano della laicità dello Stato, ma la domanda di
uguaglianza che pone, ad esempio in Italia, rimane spesso inascoltata.

 

Il dibattito finale ha
riguardato diversi temi sollevati dai presenti in sala.

Ventura si chiede se nella scuola pubblica si debba
o meno parlare di religione e, soprattutto, come se ne debba parlare: ebbene,
in Italia si può parlare di religione nella scuola non come oggetto del sapere,
ma con approccio confessionale, nella prospettiva fideistica, il che è
limitante, anche se il dibattito è aperto.

Ferrari
rimarca come i modelli di insegnamento si possano dividere in due categorie:
insegnamento into religion e
insegnamento about religion. Il primo
è quello confessionale, monopolizzato dalla Chiesa, il secondo è di tipo
culturale. Ad avviso di Ferrari non sono modelli alternativi, solo rispondono a
esigenze diverse.

In
ogni caso va considerato che la democrazia è sinonimo di conflitto: i concetti
di giustizia e di uguaglianza, pensati come approdi, sono in realtà mete
irraggiungibili, tendenziali. In un sistema democratico dovranno sempre
funzionare meccanismi di accomodamento per gestire i conflitti e, quindi, una
certa dose di relativismo è necessaria, cioè è necessario evitare l’essenzializzazione.

Aluffi
sottolinea come molti dei problemi posti dalla presenza islamica in Occidente
siano risolti non dal potere statuale centrale, ma a livello locale e come, al
tempo stesso, non sia semplice per le comunità islamiche, a causa delle trasformazioni
interne, autoregolarsi.

Guolo,
infine, conclude evidenziando che il prepotente ritorno delle religioni sulla
scena pubblica è dovuto non solo alla crisi delle grandi ideologie, ma anche, e
soprattutto, perché i temi al centro del dibattito attuale sono quelli che
riguardano le identità, la biopolitica, temi sui quali le religioni, in quanto
forme identitarie, tendono a intervenire per colmare un vuoto. Una società democratica
e laica deve garantire infatti i diritti e le identità religiose, ma anche
aiutare gli individui a uscire, qualora lo volessero, dalla dimensione del
gruppo sociale e religioso di appartenenza.

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